Le icone di Erwitt
Al WEGIL, a Trastevere, è ancora in corso fino al 12 luglio la retrospettiva “Elliott Erwitt Icons” curata da Biba Giacchetti, promossa dalla Regione Lazio e organizzata da LAZIOcrea in collaborazione con SudEst57. Dalla collezione privata di quest’ultimo provengono le 70 fotografie qui esposte, un punto di vista privilegiato che la curatrice e Giuseppe Ceroni hanno coltivato ed espresso grazie al rapporto con Elliott Erwitt stesso. L’esposizione trova spazio in un posto particolare, un palazzo sormontato da una torre rivestita di travertino, che non ha nulla a che vedere con il quartiere circostante. L’odierno WEGIL in realtà è la casa dei Giovani Italiani del Littorio, voluta nel 1933 dal governo in carica e il cui progetto fu affidato al ventisettenne architetto Luigi Moretti, il quale decise di adottare alcune soluzioni audaci negli interni, come la scala elicoidale che unisce i vari piani del corpo quadrangolare dell’edificio (e i cui scalini seguono un algoritmo per cui più si sale più ne diminuisce l’altezza), e alcuni riferimenti invece al mondo medievale, con la torre di trenta metri, e rinascimentale, con il cortile interno del blocco quadrangolare. Venne dunque inaugurato nel 1937 con tutti gli onori del caso, con i giovani Balilla in divisa e con la partecipazione delle maggiori cariche politiche. Il lotto adibito alla sua costruzione rappresentava gia una sfida per Moretti, aveva forma triangolare e doveva ospitare un edificio che assolvesse a funzioni assistenziali, ricreative e di rappresentanza. Venne così progettato in tre volumi, il primo quadrangolare si appoggia sulla facciata interna del palazzo in Viale Trastevere e ospita refettorio, piscina coperta e cinemateatro (conosciuto oggi come Sala Troisi), il corpo centrale, con le sue palestre sovrapposte e aperte e la parete tondeggiate su Via Ascianghi, e il corpo di rappresentanza, allungato sull’odierno Largo Ascianghi e da cui si accede attraverso la torre e che ospita lo spazio espositivo, la sala riunioni e l’affresco di Mario Mafai di cui oggi rimane molto poco. In esso era rappresentato, in piena retorica fascista, l’immagine di un imperatore in entrata trionfale, preceduto dai suoi cavalieri e seguito da schiavi e prigionieri. La cosa interessante, oltre al fatto che l’architetto si avvalse della Sezione Aurea per inserire i tre blocchi dell’edificio nel triangolo di terreno assegnatogli, fu anche il sapiente uso della luce naturale, che entrava da grandi vetrate, ancora visibili sul lato di Via Induno, che lasciavano vedere da fuori l’opera di Mafai, in un’alternanza di luci, di colore bianco del rivestimento esterno, e di colori dell’affresco interno. Il vetro faceva sì che tutto l’edificio fosse inondato di luce, la sala riunioni visibile dallo spazio espositivo, per esempio, è sormontata da un grande lucernario; così anche il corpo centrale e quello quadrangolare, anche la piscina e le palestre erano illuminate da una serie di lucernari ancora oggi in buone condizioni. Dopo la Seconda Guerra Mondiale ovviamente l’edificio cadde in disuso, nel corso degli Anni Settanta fu adibito a varie funzioni, tra cui la concessione all’Opera Don Orione. Dopo varie e ingombranti modifiche interne e varie vicissitudini, nel 2000 la Regione Lazio, che nel frattempo entra in possesso della struttura vincendo un contenzioso legale, mette in programma un restauro del vecchio GIL, dal 2005 al 2007 avviene dunque un grande restauro filologico, che lo restituisce ai nostri giorni in quello che era quasi del tutto l’aspetto originario. Dunque questa è la realtà odierna in cui la mostra di Erwitt è ospitata, un luogo di per sé ricco di storia, che ben si presta alla dissacrante ironia del fotografo, le pompose e retoriche sale dell’ex GIL oggi accolgono una personalità che del paradosso e dell’ironia, proprio verso l’autoreferenzialità della società, ha fatto la sua firma. Elliott Erwitt nasce sotto una buona stella, non c’è dubbio, dalle sue foto e dalle sue vicissitudini è chiaro il suo essere l’uomo giusto al momento giusto, con la sua Leica attraversa i momenti più importanti della storia del secolo scorso, e con la sua delicatezza e giusta distanza riesce ad entrare nel mondo privato di personaggi come Marilyn Monroe o Che Guevara. Le settanta opere esposte sono una vera e propria passeggiata nella sua vita, non solo attraverso gli avvenimenti che fotografa, ma anche attraverso le sue idee. La chiave di tutto è l’ironia, molto evidente a volte come nella serie di foto che vedono protagonisti i cani, affascinanti per la loro abnegazione verso l’uomo e per il loro punto di vista (in fondo chi vede più scarpe di un cane), sia per il loro modo del tutto naturale di bilanciare la compostezza e boriosità dei loro proprietari. l’idea di Erwitt è che i cani abbiano una vita particolarmente schizoide, sempre a cavallo tra il mondo degli umani e il mondo canino, ma riescono a mantenere una irriverenza che serve alla società per ridimensionarsi. Anche i bambini sono ottimi soggetti da fotografare, non solo per la loro naturalezza e predisposizione, ma perché attraverso di loro Erwitt esplora anche le relazioni raziali, si pensi ad esempio alla foto scattata durante il fotoreportage di Pittsburg commissionato da Roy Stryker, in Pennsylvania, del bambino nero che ridendo si punta una pistola alla tempia. Foto come questa colpiscono e possono essere lette attraverso un triplice registro, possono essere considerate stupide, drammatiche o semplicemente comiche, dipende dal punto di vista e soprattutto dalla percezione di chi osserva. Quello che il fotografo ha ben chiaro è il fatto che le foto, se ben fatte, racchiudono una sorta di magia che gli permette di avere una vita propria, indipendente dalla volontà di espressione del fotografo, e che le porterà avanti nella storia. I suoi reportage per esempio del set di The Misfits o del funerale di Kennedy ne sono un esempio lampante, foto diventate iconiche per la capacità di entrare nell’intimo dei soggetti ritratti, nonostante i soggetti stessi siano personalità pubbliche. Buona parte delle foto presenti sono scatti rubati, istantanee. California Kiss, qui esposta nella parete nera centrale della sala, ne è un esempio, sembra un set, in realtà è il frutto di una scena casuale, in cui Erwitt ha fotografato i soggetti da più angolazioni fino a trovare l’incastro perfetto: il tramonto, il sorriso della donna, e lo specchietto che fa da cornice ai due protagonisti. Quando la rivista Life gli commissiona un reportage sull’amore, per un numero monografico su questo tema, Erwitt si sorprende nel ritrovare molte foto aventi come soggetto uomini e donne che interagiscono, legati dal filo di un romanticismo che a volte è molto chiaro, altre più sfumato, e che invade non solo esseri umani, ma spesso anche cose o animali. Il concetto dietro questi scatti è che ogni volta che un uomo e una donna legati da una relazione interagiscono, i loro gesti e sguardi siano pieni di implicazioni e sottintesi. Da questo punto di vista, la fascinazione che subisce il fotografo lo porta in un’indagine sulle relazioni di coppia, alcune delle fono presenti in mostra sono molto esplicite in questo, Erwitt colleziona foto di coppie che si baciano, che ballano, come quella scattata a Valencia nel 1952 in cui cattura un momento chiaramente privatissimo del fotografo Robert Frank e di sua moglie Mary che ballano nella cucina baciata dal sole della loro casa valenciana. Il numero consistente di questo genere di immagini confluirà poi nella pubblicazione del volume Between the Sexes, egli stesso si definisce un voyeur professionale in quanto particolarmente portato nel leggere il linguaggio del corpo. Questa mostra dunque è un meraviglioso viaggio nella carriera di un fotografo che ci ha permesso di vivere, con i suoi reportage e scatti privati, alcuni dei momenti più importanti della storia del secolo passato, facendoci anche sbirciare negli attimi più intimi e privati di personaggi famosi e non. Vale la pena fare una passeggiata a Trastevere anche solo per questo.