Le erme di Luigi Ontani
Luigi Ontani, coerentemente con le sue scelte formali, utilizza per le sue opere dei tipi di strutture già presenti nella storia dell’arte e dell’archeologia. Operazione già analizzata nella serie dei grilli, torna anche qui, questa volta attingendo direttamente dall’antichità greca e romana. Alcune delle sue più importanti sculture in ceramica sono infatti erme. Questa tipica forma, risalente appunto all’antichità, ha le sembianze di un pilastro a forma di parallelepipedo, alla cui sommità è scolpita una testa a tutto tondo, raffigurante divinità varie. Una delle caratteristiche più importanti di tale scultura è il tipico fallo eretto in segno di fertilità. Inizialmente, la divinità che sormonta il pilastro, è Ermes, la cui essenza viene in questo modo riassunta: trovano infatti posto nella stessa figura, nella stessa opera, due aspetti che caratterizzano in modo tipico la figura del dio, ovvero il ruolo di nume tutelare della fecondità, inequivocabilmente simboleggiato dagli organi genitali maschili, e il ruolo di protettore delle proprietà private e dei viandanti, raffigurato nel cippo stesso che spesso veniva posto lungo le strade, nei crocevia, e lungo i confini. Per tutta l’età classica le erme sono oggetto di culto, importanti per la società, tanto che, quando nel 415 a.C. vengono mutilate durante una notte, il fatto è percepito come un vero e proprio scandalo. All’epoca della loro massima diffusione raggiungono un’altezza di circa un metro, o un metro e mezzo, e costituiscono una sorta di evoluzione del betile, una “dimora della divinità”, spesso collocata lungo le strade. In altre parole quasi un tempietto portatile, messo lungo le vie a continua invocazione della loro protezione. A differenza del mondo greco, nel mondo romano l’erma non è associata esclusivamente a Ermes, ma a molti dei, in modo duplice, accostandone due alla volta, nuca contro nuca. In tal modo l’erma appare come una duplice personalità in un unico corpo. Spesso raffigurano anche personaggi defunti. Questo loro impiego funerario è forse da attribuire anch’esso alla figura di Ermes Psicopompo, cioè guida, portatore di anime nel regno dei morti. Tra le altre sue caratteristiche questa è particolare in quanto solo pochissime divinità hanno la libertà di entrare e uscire dagli inferi a loro piacimento. Nonostante qui non sembri esserci alcun legame con l’Oriente, esso è tuttavia presente in quanto tali forme sono riscontrabili anche in zone lontane tra loro; in particolare queste strutture, seppur semplificate e a volte prive di testa, sono presenti in ambito induista associate a Siva.
Ontani fa sua l’erma, mantenendola costante, come forma base, ma facendo infinite variazioni sul tema. In particolar modo utilizza l’erma dal doppio volto, associata, come tipologia, al culto di Giano bifronte. Il personaggio da cui ricavano il loro nome è sintomatico di un concetto nascosto dietro, deliberatamente celato, anche se non troppo. Il dio Ermes è importante per l’artista, in effetti sceglie di usare una struttura formale che palesemente richiama il nome del dio. L’assonanza rimanda anche ad altri temi, come l’ermafrodito e l’androgino, cari alla poetica ontaniana; Mercurio, corrispettivo latino di Ermes, importante anche dal punto di vista alchemico e esoterico; Ermete Trismegisto, autore del Corpus Hermeticum che Ontani legge in gioventù.
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’ermafroditismo, si colloca in molte creazioni, è come un leit motiv, un concetto ricorrente della poetica ontaniana. Ermafrodito è il figlio di Ermes e Afrodite, dotato di straordinaria bellezza perche riassume in sé la prestanza e l’aspetto dei divini genitori, Ovidio narra che fu allevato dalle Naiadi, ninfe dei boschi e dei fiumi. La sua bellezza fa innamorare la ninfa Salmacide la quale, sorpreso Ermafrodito, che l’aveva più volte rifiutata, presso una fonte, lo cinge da dietro abbracciandolo e allo stesso tempo esprimendo il desiderio di non venirne mai più separata. Gli dei esaudiscono la sua supplica, fondendo i due corpi che però continuano a mantenere i loro attributi, maschili e femminili. Iconograficamente infatti Ermafrodito è spesso visto come una splendida ragazza con l’organo genitale maschile, oppure come un bel ragazzo dai seni sviluppati. L’ermafroditismo si accompagna al tema dell’androginia. Molte opere sono incentrate su queste due concezioni, per esempio “ErmafroDitoMignolo”, o anche “CignoLedoDIOscuri”.
Psicologicamente, questo concetto si lega a quello di Anima e Animus: essi sono la personificazione di una natura femminile nell’inconscio dell’uomo, e di una natura maschile nell’inconscio della donna. È una sorta di ermafroditismo psicologico, derivante dal dato biologico. In altre parole, il feto nasce maschio o femmina a seconda del maggior numero di geni maschili o femminili. I geni in minoranza, che saranno dunque del sesso opposto a quello del nascituro, sembrano formare un carattere opposto a quello del nascituro stesso. Nonostante l’inferiorità questa minoranza genetica non viene eliminata, ma si sedimenta nell’inconscio. Questa immagine inconscia di sesso opposto è presente sia nell’uomo che nella donna, ed è assimilabile ad un archetipo, di origine remota, inscritto nel sistema vivente, essa è una sintesi di tutte le più ancestrali esperienze della donna e dell’uomo in generale, un accumulo di tutte le impressioni del maschile e del femminile. Quest’immagine inconscia, essendo appunto tale, è sempre proiettata inconsapevolmente nella persona amata, è lei che genera passione, attrazione o repulsione. Animus e Anima in questo senso mettono in contatto l’individuo con le esperienze dell’inconscio collettivo. Sono un ponte tramite cui si raggiungono le immagini dell’inconscio collettivo, così come l’uomo è un tramite, una porta, un ponte, attraverso cui entra in collegamento con il mondo. Animus e Anima influiscono potentemente, il primo nel flusso dei sentimenti, la seconda invece nell’intelletto. Entrambi, insieme, rappresentano la relazione archetipica uomo-donna, e alchemicamente corrispondono al mysterium coniunctionis, le parole di Jung spiegano il concetto: “[…] il vivente segreto della vita è sempre nascosto fra Due, ed è questo il vero mistero, che le parole non possono svelare e le argomentazioni non possono esaurire”(1).
Dell’Androgino parlano sia Platone che Aristofane, egli è figlio della Luna e partecipa della natura del Sole, i cui figli sono gli uomini, e della Terra, le cui figlie sono le donne. Questi esseri all’apparenza perfetti, e dediti a sacrifici agli dei, a poco a poco diventano talmente arroganti da voler tentare la scalata all’Olimpo. Zeus, infuriato, decise di punirli, pur non distruggendoli del tutto per non privarsi dei sacrifici che gli venivano dedicati, decise dunque di dividerli, separandone la metà maschile da quella femminile, e condannandoli a vagare per tutta la vita alla ricerca della propria metà.
Per la sua particolare natura ambivalente, questo essere è spesso usato come simbolo, archetipo, alchemico della coincidentia oppositorum, la coincidenza degli opposti e il loro successivo superamento. Esso infatti, colto nel momento antecedente la divisione, è simbolo di interezza, di circolarità, di un eterno flusso senza fine né inizio, anzi in cui la fine corrisponde a un nuovo inizio. In questo può anche essere accostato ad un altro simbolo alchemico, archetipo di uno scorrere continuo e infinito, l’Uroboros, il serpente che si morde la coda, e il cui movimento non ha mai fine(2).
Mercurio, versione latina del greco Hermes, mantiene in tutto gli attributi e le caratteristiche del suo gemello greco. Figlio di Zeus e di Maia, nasce in Arcadia, famoso per le sue invenzioni tra cui la lira, con cui divenne amico di Apollo dopo avergli sottratto con l’inganno i suoi buoi, la siringa, l’alfabeto, i numeri, l’astronomia, la musica, le arti della guerra, la ginnastica e alcune unità di misura. La sua astuzia spinse Zeus a nominarlo suo messaggero e araldo, dall’eloquenza vivace, e protettore quindi anche di tale dote, visto che gli araldi sono tenuti a parlare in pubblico durante le assemblee. Per la sua prudenza e furbizia è visto anche come il dio del furto, dell’inganno e dello spergiuro. In veste di messaggero, si rese utile in numerose occasioni riguardanti anche altre divinità. Protettore dei giocatori d’azzardo e del commercio, fu venerato anche come dio della buona fortuna. Le erme erette in suo onore, lungo strade e crocicchi, erano ritenute anche portatrici di fecondità grazie al loro fallo eretto, in realtà il suo legame con la fecondità può essere anche indiretto, spesso infatti Ermes/Mercurio è messo in relazione con la dea Afrodite, lei stessa simbolo di abbondanza e fertilità. Mercurio è anche uno dei simboli più importanti dell’alchimia: visto come “spirito Mercurio” è simbolo unificatore degli opposti, che siano essi chimici, fisici, e per esteso, cosmici e psichici. Egli si incarna infatti nei suoi corrispettivi materiali, che, a seconda dei casi, prendono l’aspetto del metallo, di spirito, di liquido, di veleno, o all’opposto, di bevanda guaritrice. I suoi attributi alchemici sono coppie di contrari, come l’uccello e il serpente, il vecchio e il bambino, il Sole e la Luna. L’alchimista può parlare di Mercurio in tanti modi, fisicamente e esteriormente egli intende l’argento vivo, mentre interiormente e spiritualmente si riferisce allo spirito creatore del mondo, celato nella materia, in cui è prigioniero. Questo spirito celato non è altri che il divino Ermete alato, la cui manifestazione sta nella materia, egli è il dio della rivelazione e il signore del pensiero, psicopompo per eccellenza. Psicologicamente Mercurio incarna l’inconscio, egli è però anche colui che funge da collante , da catalizzatore nell’unione di coscienza e inconscio. In tale modo si capisce che, in un individuo, il conscio è l’elemento preso singolarmente, mentre l’inconscio è quell’elemento che lo unisce al cosmo. In questo modo l’opera alchemica si fonda sull’unificazione di questi due importanti elementi, la cui unione è possibile tramite la meditazione, e il principio attivo è Mercurio. L’alchimia collega il mito di Mercurio, a un personaggio leggendario, ritenuto il padre dell’alchimia stessa, e autore del “Corpus Hermeticum”. È Ermete Trismegisto, a cavallo tra la mitologia vera e propria, la religione e la filosofia. Egli è “Ermes tre volte grandissimo”, e questo suo nome risale probabilmente ai Greci dei primi anni dell’era cristiana, che vollero così appellare il dio egizio Thot, il quale con l’Ermes classico ha molte affinità. Dall’unione di Thot e Ermes nasce dunque questo dio che incarna tutte le valenze ambigue dei due, come essere divinità messaggere degli dei ma allo stesso tempo anche infernali. Ad ogni modo, ad Ermete, furono attribuiti scritti in lingua greca, messi in circolazione in tutto l’Impero Romano. Tali opere avevano come temi l’astrologia, la filosofia, alcuni ammonimenti morali e previsioni sul destino dell’uomo, ma anche e soprattutto trattavano di magia e scienze occulte nel senso vasto dei termini. Questi testi furono racchiusi in quello che è dunque chiamato “Corpus Hermeticum”, i trattati in esso sono diciassette, e hanno presumibilmente momenti di origine diversi, circa nei primi tre secoli dell’era cristiana, e raccolti invece alla fine del III secolo d.C. Il Corpus può ben essere considerato una sorta di testo sacro, per la setta di cui il dio era ovviamente il capo. Tale setta, prevedeva dei momenti salienti, quali i riti d’iniziazione, l’estasi mistica e la prospettiva di rinascita. Il culto di questo strano dio è desunto anche dalla traduzione dei papiri magici greci; da essi affiora l’immagine di un dio onnipotente, innanzitutto creatore, signore della vita e della morte, e avente anche virtù profetiche. Non si può negare una certa somiglianza con le religioni misteriche, prima fra tutte il Cristianesimo, mentre i suoi insegnamenti più strettamente filosofici tradiscono una matrice ellenistica. L’ottica greca ellenistica è riscontrabile anche quando si parla di Ermete non come un dio ma come di un semplice uomo, che è riuscito a raggiungere l’immortalità tramite un lungo processo di auto-purificazione, tale purezza di spirito lo mette in diretta comunicazione con gli dei, dai quali lui stesso riceve rivelazioni, con il compito di trasmetterle agli uomini. Si nota come in qualche modo l’aspetto egizio di questo uomo/dio sia passato in secondo piano con lo scorrere degli anni, anche se si pensa che il Corpus sia stato originalmente scritto in egiziano e solo successivamente tradotto in greco. Comunque siano andate le cose, oggi la storia di Ermete Trismegisto è ancora molto conosciuta in tutti quegli ambienti particolari, in cui influenze esoteriche e dovute all’occultismo si mescolano. La forte importanza data a questo personaggio nell’ambiente dell’alchimia, l’ha reso forte di una presenza costante nel panorama della cultura di tutti i tempi, fino al Novecento in cui con il termine Ermetismo è stata racchiusa una corrente letteraria ben precisa(3).
Ermete, Hermes, nell’alchimia è rappresentato dal cerchio, nella creazione dell’opera alchemica, l’opus è considerato come l’origine del mondo, e questo, l’opus stesso, in termini più umani, è percepito come l’opera creatrice divina. In tutto ciò l’uomo è considerato un microcosmo, una miniatura del mondo. Mercurio, nei trattati alchemici è spesso raffigurato come un serpente o un drago, “serpens mercurialis”, e come tale è duplex, ha una doppia natura che si manifesta nell’unione degli opposti, contenuti in sé stesso. Identificato come Hermes, come Ermete o come Mercurio, egli è mago, e dio dei maghi, ed è per questo che è considerato il patriarca dell’alchimia. Egli è infatti fornito di bacchetta, che in realtà è il caduceo, memore della sua origine divina ellenistica, che lo vuole proveniente da Apollo il quale lo dona a Hermes stesso. Il caduceo ha due serpenti attorcigliati intorno, due spirali che salgono lungo un’asse centrale. La sua espressione materiale, ovvero l’argento vivo, è la manifestazione concreta dello spirito mercuriale, esso è l’anima mundi presente nell’intimo e che allo stesso tempo avvolge il mondo stesso. In tale modo, come l’argento vivo materializza Mercurio, così l’oro è una manifestazione materiale del sole in terra(4).
La duplicità esplicita in questo particolare personaggio, e nei suoi attributi, lo rende avvezzo a varie interpretazioni artistiche, non solo Ontani lo elegge suo alter ego, racchiudendo in sé/Mercurio, tutto il carico di duplicità e contraddizione che esso comporta, ma anche molti artisti, tra i quali De Chirico, lo rendono simbolo della loro personalità. Anche questo, in qualche modo, è un punto in comune che i due artisti hanno, coincidente anche con la visione circolare del tempo. De Chirico chiama nel suo libro del 1929 “Ebdòmero”, Mercurio Oniropompo, ovvero portatore di sogni, riallacciandosi ad un’altra sfumatura mercuriale, per così dire, che è quella caratteristica del dio di generare materia onirica all’ingresso degli uomini nel sonno. La materia onirica è molto usata anche da Ontani, le deformazioni e modificazioni della realtà sono condotte da entrambi gli artisti in maniera diversa, nonostante questo, il filo comune rimane, come espressione di una visione artistica e del mondo estremamente colta e borghese, fondata sulla conoscenza delle stessi basi su cui poi costruire la propria espressione del reale. Leggono Vico, i suoi corsi e ricorsi storici portano entrambi alla visione circolare del tempo, entrambi leggono trattati di alchimia, De Chirico ne è interessato a tal punto da diventare egli stesso quasi alchimista nel ricercare il contatto con la materia dei colori, mischiandoli e ricavandone di nuovi, nell’ottica dell’evoluzione del ritorno al mestiere condotto negli ultimi decenni della sua vita. In Ontani, l’ambivalenza portata da questo personaggio, in tutti i suoi aspetti, è usata spesso; in un certo senso il fatto di scegliere come forma dell’opera un’erma, è emblematico dell’importanza che Mercurio/Hermes riveste. Anche qui siamo forse in presenza di una sorta di alter ego particolare, in cui l’ambiguità rispecchia appieno quella speculare dell’artista. La doppia visione dell’artista, la sua ambivalenza e versatilità, l’uso di se stesso come corpo jolly, da usare a piacimento e in tutte le sue possibili modificazioni, rendono lo spirito mercuriale ben adatto a incarnarsi in Ontani. È come se questo spirito, che nell’alchimia avvolge il mondo intero, effettivamente avvolgesse anche l’artista, che lungi dall’esserne soggiogato, gioca con lui, lo piega al proprio volere, rendendo funzionali tutte le caratteristiche di cui tale spirito è portatore.
Le erme di Ontani sono ErmEstetiche, un neologismo inventato dall’artista stesso per porre, in un certo senso, l’accento sull’estetica di queste opere. Di fattura perfetta, in ceramica, in collaborazione con la Bottega d’Arte Ceramica Gatti di Faenza, rappresentano una sfida in campo materiale, cioè nei procedimenti complicati grazie ai quali vedono la luce, ma anche un concentrato di elementi combinati sapientemente dall’artista che, di volta in volta, crea soggetti e giochi di parole materiali, splendidamente smaltati, con colori vivi e lucidi, come viva e lucida appare l’erma finita. La parola estetica sul titolo, ne evidenzia un carattere di leggerezza, di frivolezza che in realtà si basa su un background culturale ben preciso, nulla in esse è lasciato al caso. Ciò fa sì che, ad un primo sguardo, l’oggetto ci colpisca per la sua bellezza, che è reale, splendida, palpabile, ci si perde nella vivezza dei particolari, nell’esplosione cromatica che colpisce le vista sovraeccitandola; ad uno sguardo più attento, il puro godimento estetico lascia il passo alla riflessione concettuale. Si scoprono i particolari che ci aprono porte, ci avvicinano a un immaginario erudito di simboli da svelare, stuzzicano la nostra stessa conoscenza ad allungare la mano per afferrare un concetto che in questo modo appare alla mente solo accennato; si cerca l’approfondimento, che non vuole certo relegare in secondo piano la valenza estetica, l’armoniosità delle forme e il piacere dei colori, ma si capisce che oltre le belle forme c’è di più, un sostrato stracarico di riferimenti culturali e non, di stratificazioni comprensibili solo da chi ha strumenti appropriati.
Le ErmEstetiche, come del resto tutta l’opera ontaniana, vanno prese così, come opere estremamente belle, sensualmente attraenti, piene. Che non ci si aspetti il vuoto sotto la superficie, perché in tal caso si rimarrebbe tremendamente delusi. (Fig. 1, 2, 3).
(1) C.G. Jung, “Immagine e parola”, Roma, 2003, p. 127.
(2) Mircea Eliade, “Mefistofele e l’Androgino”, Roma, Edizioni Mediterranee, 1971, passim.
(3) C. G. Jung, “Immagine e parola”, Roma, 2003, passim.
(4) C. G. Jung, “Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, in “Opere” Boringhieri, vol. IX, tomo primo, Torino, 1980, passim.